Il nostro linguaggio è uno strumento. E, come tutti gli strumenti, il suo impiego è definito dal contesto, dalla forma di vita in cui è immerso. La guerra è una forma di vita. È un gioco linguistico tra i più brutali, eppure, proprio per questo, rivela la natura profonda delle nostre espressioni, le loro radici nelle pratiche e nelle conseguenze.
Consideriamo le parole usate in guerra: “nemico”, “obiettivo”, “sacrificio”, “danno collaterale”. Non sono nomi neutri, appesi a concetti astratti. Il loro significato non è dato da una definizione da dizionario, ma dall’azione che generano, dalla realtà che esse costituiscono nel momento stesso in cui vengono proferite o pensate.
Quando un ufficiale dice “attaccare l’obiettivo”, questa non è un’affermazione descrittiva nel senso di “il tavolo è marrone”. È un comando, certo, ma è anche l’attivazione di una complessa rete di azioni, di pericoli, di esiti. “L’obiettivo” non è solo un punto su una mappa; è il luogo dove vite saranno distrutte, dove il rumore delle esplosioni sovrasterà ogni altro suono, dove la carne e il ferro si incontreranno in un’orribile danza. La parola “obiettivo” è carica di futuro, un futuro di violenza.
Il linguaggio della guerra è un linguaggio di eliminazione. Non solo del nemico fisico, ma anche del superfluo, dell’ambiguo, di ciò che non serve all’azione immediata. Le parole diventano proiettili, affilate e precise, intese a colpire, a dirigere, a distruggere. La loro funzione non è la comprensione reciproca nel senso di un dialogo aperto, ma la coercizione e il coordinamento per uno scopo specifico: la vittoria.
Pensiamo al silenzio in guerra. Non è l’assenza di suono. È un tipo particolare di suono. Il silenzio prima della battaglia, carico di tensione, dove ogni respiro, ogni fruscio, assume un significato enorme. È un silenzio eloquente, che parla di paura, di attesa, di morte imminente. E il silenzio dopo l’esplosione, un silenzio che è assenza di vita, interruzione brusca di ogni suono umano, riempito solo dal fischio nelle orecchie e dal battito del cuore. Questo silenzio è parte della grammatica della guerra, significativo quanto le grida e gli ordini.
Le parole in guerra sono spesso eufemismi: “neutralizzare”, “ingaggiare”, “operazione”. Questi termini non sono scelti per oscurare la realtà a coloro che la vivono in prima persona – essi conoscono bene la realtà della distruzione e della morte. Sono scelti per coloro che sono distanti, per il “pubblico”, per rendere accettabile l’inaccettabile. Il linguaggio diventa un velo, una mistificazione, una distorsione della realtà per chi non partecipa direttamente al gioco linguistico della guerra. Ma per il soldato, “neutralizzare” un nemico significa ucciderlo. E questa è la verità della parola, nel contesto della sua forma di vita.
Il “mondo della guerra” non è qualcosa di separato dal suo “linguaggio”. Non c’è una realtà della guerra pre-linguistica che poi vestiamo di parole. Il linguaggio della guerra è la guerra. Gli ordini, le minacce, le promesse di morte e le invocazioni al coraggio – sono tutti atti performativi che costruiscono e sostengono la realtà del conflitto. Senza questi atti linguistici, la guerra, come fenomeno organizzato e collettivo, cesserebbe di esistere nella sua forma riconoscibile.
La sofferenza, la paura, il coraggio, la morte: queste non sono “cose” che il linguaggio descrive in guerra. Sono esperienze che trovano espressione in un certo tipo di linguaggio, in gesti, in silenzi, in grida. E queste espressioni, a loro volta, danno forma e struttura all’esperienza. Non possiamo parlare della guerra senza parlare il linguaggio della guerra, perché è attraverso questo linguaggio che il suo mondo si manifesta e si perpetua.
Comprendere il linguaggio della guerra non è decodificare simboli, ma cogliere le pratiche, le intenzioni e le conseguenze che esse innescano. È riconoscere che le parole, qui, non sono mai innocenti. Sono cariche del peso del sangue, del ferro e della carne. E in questo gioco linguistico, la chiarezza arriva spesso solo con l’esplosione, con la fine della discussione, con l’ultima, inappellabile, verità del campo di battaglia.